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      Dei cittadini prigionieri, alcuni furono trascinati a piedi coll'esercito; alcuni lasciati addietro. "Da prigionieri, ci trovammo padroni del Castello e dei nostri nemici. I feriti, al vederci, si mostravano atterriti, temendo di essere scannati. Venne il mattino; un animoso popolano scalava il muro del Castello, la cui porta era ancora chiusa; e salito sul torrione vi piantava la bandiera tricolore. Entravano i liberatori, incerti della nostra sorte, e lieti di trovarci vivi. Ma non tutti. Alle grida di gaudio si mescevano gemiti dolorosi; le fosse rosseggiavano di sangue; nei cortili, luridi di fango e di ceneri, giacevano ossa abbrustolate, membra tronche sporgevano dal terreno smosso. In un orto, sette cadaveri d'uomini, mezzo spogliati, e barbaramente insultati e mutilati; due gambe di diversa dimensione, e che dalle forme apparivano feminili; in un'aqua corrente attigua, molte membra. Tanto apparvero sformati i visi e le membra delle vittime, che fu impossibil cosa il ravvisarle. Non era occhio che rimanesse asciutto".
      La ritirata del nemico era difficile. "Piante abbattute, sparsi materiali di barricate, cadaveri di borghesi e di militari impedivano a ogni tratto il libero passo. Il cedere dinanzi alla borghesia armata era d'insopporlabile avvilimento ad officiali e soldati: si abbandonavano ad ogni eccesso, guastando ed incendiando quanto loro veniva per le mani. Il sentimento dell'odio non faceva tacere quello della paura. Un cavallo d'un gendarme preso da spavento, essendosi cacciato in mezzo a due battaglioni che marciavano in colonna serrata, assaliti da pānico timore, si gettarono in disordinata fuga per la campagna.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





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