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      Molti mi predicavano, come avrebbero potuto fare a un Egiziano, che a conseguir l'indipendenza era mestieri preparare lontanamente le cose; introdurre in Italia li asili dell'infanzia, le casse di risparmio e le strade ferrate; distogliere i contadini dal dolce far niente. In due o tre generazioni il popolo poteva farsi maturo. E mi dissero parecchie cose che veramente aveva già lette nei libri del conte Cesare Balbo, e del marchese Azelio e del Dalpozzo.
      Ragionamenti di questa fatta mi si facevano da uomini d'ogni opinione, Cavaignac, Bastide, Cintrat, Mignet, Thierry, Larochejacquelein, Drouin de Lhuys e cento altri di cui non mi ricorda il nome. Chi mi palesò animo più propenso e ospitale, si fu Lamartine; e meglio intendere le cose d'Italia mi parve Quinet. Ma il vero senso di nazionale amistà, lucida coscienza dei principii universali della prima rivoluzione francese, mi parve viver solo nei capi del popolo, nelli uomini senza cariche e senza dovizie. E ad essi pure manca la notizia dei fatti.
      V'è nelle menti delli stranieri un'Italia immaginaria, della quale i nostri oppressori si giovarono sempre a distogliere dalle cose nostre i governi che più interesse avrebbero alla nostra libertà. Noi scriviamo poco per noi; nulla per li altri.
      I discorsi che mi facevano, erano tanto strani, e alludevano a circostanze cotanto sfigurate e capovolte, ch'era forza tacermi; poichè non poteva io rifar da capo, ogni volta, e con ogni persona, tutta la tela delle emende, rettificazioni e giustificazioni.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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