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      Ne gettai un motto al conte Pompeo Litta, che, come vecchio militare, mi pareva rappresentar la presente necessità di pensare solo alla guerra e non divagare dietro le ambizioni politiche. Ne parlai anche al marchese Cusani, che avrebbe potuto arrecare nelle nostre finanze una capacità esercitata in grandi industrie; ma egli non voleva incarichi che avessero publico apparato; ora, è questo appunto che più ci necessitava. Vedendomi involto in sì spinoso negozio, Terzaghi e Cernuschi mi sollecitavano a passi più deliberati. Anzi credo dettassero una dichiarazione, in cui pare assumessero apertamente pel Consiglio di Guerra l'incarico di comporre un governo provisorio; e intendevano poi di persuardermi a firmarla, dicendosi sicuri che la gioventù ci assisterebbe.
      Ma ciò non poteva essere se non cosa del momento; io non m'illudeva; non poteva credere che un governo, il quale non fosse devoto alle cupidigie di Carlo Alberto, potesse reggere al peso dell'occupazione militare ormai inevitabile. Conosceva quel principe, esercitato a sedurre e tradire, a lusingare e fucilare. Li indefessi suoi facendieri avrebbero in pochi dì empita ogni cosa di discordie e di rancori, al cospetto come saremmo, d'un nemico solito a risurgere dalle sue disfatte. Le dimostrazioni a i giornali di Torino e di Genova sucidamente adulatori avevano allucinati sino all'insania molti buoni; i quali, solo da sè, e a forza di fatti e di disinganni, potevano ricondursi a più sana estimazione delle cose.
      Tutte codeste pratiche si tenevano alla sfuggita, negli intervalli che i combattenti ci lasciavano; ma le ore scorrevano veloci; e il conte Martini non partiva mai.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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