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      Di tempo in tempo, e quando quella molestia era troppo grave, i battaglioni nemici sostavano, rispondendo con poderose scariche. Li assidui colpi cingevano la città d'un semicerchio scintillante; col mutare del vento udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il battere a stormo dei sessanta campanili ormai tutti liberi.
      Il nemico s'inoltrava lento e stanco fra mille ostacoli; in qualche luogo trovò il bastione già ingombro di piante atterrate; spese tutta la notte a trarsi fuori della città. Doveva condurre seco le artiglierie, le bagaglie, i feriti, più di trecento famiglie d'officiali e d'impiegati stranieri, i decrepiti generali, li sventurati che il capriccio militare aveva fatti ostaggi, e qualche migliaio di soldati italiani. Molti di costoro erano stati saldi contro i colpi dei fratelli; ma non tutti sapevano rassegnarsi a seguire nella fuga lo straniero. Alle crociere delle vie, dove era facile sottrarsi, i generali paravano loro in faccia la bocca del cannone; alla menoma esitanza, si udivano li officiali gridar loro: o avanti o morti!
     
      Alla fine il nemico fuggiva. Quei cinque giorni gli erano costati quattromila morti(2). Di quattrocento cannonieri erano avanzati cinque; l'artiglieria era data a condurre ai cacciatori tirolesi. Ecco ov'era giunto in breve quel vecchio provocatore, che colle sue violenze aveva tratto un popolo mansueto a farsi disperatamente ribelle, minacciava per barbara iattanza di domarlo con le bombe e il saccheggio e li altri mezzi! Egli è ben certo che quella risoluzione di fuggire con un esercito avanti a una turba di quiriti, con tanto sacrificio della superbia militare e dell'odio inveterato, fu atto d'animo bassi, ma forte; fu tanto ignominioso, quanto prudente e necessario.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315