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      Aveva ben diritto io di esclamare il dì seguente, nella sala del governo provisorio: Viva il Piemonte e infamia a Carlo Alberto!
      Certo che non aveva momento di temporeggiare. Appellati alle armi per noi tutti i popoli e principi d'Italia, si sarebbero trovati seco sul campo. Il nostro destino non rimaneva allora in arbitrio solo di lui; riservato a un congresso dell'Italia, e forse dell'Europa, sarebbe stato argomento a disputa grave e solenne; dalla quale illuminato il popolo sarebbe venuto a deliberazione che potesse almeno dirsi valida. E tutti li altri principi, per porre limite all'ambizione dell'alleato, dovevano favorire la nostra libertà. Per fare adunque tutta sua la nostra vittoria, doveva correre ad accamparsi sul Mincio, primo se poteva, e solo.
     
      - E doveva oltrepassare il Mincio? -
      L'ambizione è come l'avarizia; cupidigie senza confine, che il timor solo o l'impotenza raffrena. Carlo Alberto pur troppo appetiva assai più; e i satelliti suoi parlavano già di spossessare anche i principi che lo avevano preceduto nel promettere ai popoli la libertà. E Gioberti, con sottigliezza da disgradarne i sofisti dell'era macedonica, aveva appuntato l'arguzia che l'unione era meglio che l'unità. Insomma la servitù di Milano era avviamento all'obbedienza di tutta l'Italia. Li ambasciatori, i commissarii ambulanti, i vecchi partigiani traditi sempre e sempre fiduciosi, si spargevano come locuste per tutta la penisola. Appiccavano briga coi Toscani, per certi poveri casali, ascosi fra i castagni dell'Appennino; tentavano il popolo di Livorno e li avvocati di Firenze; tessevano pratiche per furare Bologna allo Stato Romano; quei nuovi Guelfi del conte Balbo stavano per farsi scommunicare come vecchi Ghibellini.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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