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      Nè alcuno di essi avrebbe accondisceso ad accettare il frutto della violenza. E quelli studenti e militari e membri della guardia nazionale ch'erano veramente presti, anzi desiderosi, di metter fine colle mani alla dappocaggine del governo provisorio e all'uopo si offrivano, vennero sempre con gravi parole dissuasi. Il male era profondo; era necessario lasciargli corso e sfogo. Il popolo non conosceva il pregio della libertà che gli era caduta fra le mani.
      L'Urbino fece anzi buon'opera al governo, dandogli occasione d'interessare alquanto con una farsa l'imaginario pericolo la parte più fiacca e timorosa dei cittadini, e mettendo una convulsione di servilità nella guardia nazionale, che aveva già cominciato a rammentare al governo i suoi doveri.
      Si annunciò ai cittadini che l'Urbino aveva con una mano strappata la fascia tricolore al Casati, e coll'altra imbrandito un pugnale. Lo sgraziato aveva una mano sola! Il Fava, sempre eguale a sè, stampò tosto ch'egli aveva "la consolazione d'annunciare che i fili della trama erano troncati. Speriamo, egli diceva, che il processo rivelerà quali siano stati li illusi, quali i compri dall'oro austriaco, che anche per questa volta, fu, come a Roma e Livorno, inutilmente gettato". E si cominciò, poi si ricominciò da capo, un processo, nel quale il presidente supremo Guicciardi, già fiscale austriaco, s'incaricò di far involgere nomi onorati; ma per l'onestà dei giudici, e specialmente di Caporali e Bazzoni, non riescì se non a disonorare se stesso.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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