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      Irene gli empiva la testa di fantasie, parlandogli della vittoria a cui sarebbero giunti insieme, presto o tardi, e della gioia che ne avrebbero insieme goduto. Proprio, come se la giovine donna fosse stata sua moglie, come se avessero avuto comune il destino per legge sociale e per legge soprannaturale. Una sciocchezza enorme!
      Poi lo irritava il desiderio insaziato del possesso di lei; il modo incompleto ond'ella gli si era data, dopo le prime volte. Pareva che tutto quel fuoco si fosse spento ad un tratto, ed era una cosa da perderci la ragione com'ella continuava a condursi. Cadeva nelle braccia come un uccelletto cadrebbe nella bocca del serpente che lo ha affascinato, pallida, insensibile alla calda sensualità degli amplessi dell'amante. Egli vedeva sulle sue labbra il sorriso triste della vittima, ne' suoi occhi smorti l'angoscia che secca le lagrime. Perdio! alla fine, lui, non aveva voluto niente per forza, e non c'era da mettere in dubbio che Irene non stimasse quelle cose come una conseguenza necessaria delle loro relazioni. Lo diceva lei stessa; anzi, andava piú in là: aspettava con fremiti di donna bramosa il giorno in cui avrebbero potuto, essa e lui, amarsi liberamente, imponendo al mondo lo spettacolo del loro amore. Ma aveva fisso il chiodo d'essere una donna onesta, e di non saper mancare senza raccapriccio ai doveri inerenti a tale mestiere!
      Cosí Mario, a poco a poco, per un sordo ribrezzo di quelle scene impossibili, aveva cessato dal provocarne la ripetizione.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





Irene Mario