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      Ne accettavano la continua riproduzione col loro stoicismo e colle loro facezie di filosofi pratici.
      Gregorio Ferramonti era il capo riconosciuto ed accettato della brigata. Godeva la superiorità che gli derivava dai suoi quattrini, la piú legittima e la piú incontestata fra tutte. Lo corteggiavano vigliaccamente, ed egli poteva cullarsi nell'idea lusinghiera d'esser qualche cosa di particolare, solleticato vagamente dalle adulazioni grossolane ond'era circondato. Queste erano anche sincere: un omaggio istintivo di cervelli limitati e di animi cupidi, sedotti dalle ricchezze dell'antico fornaio. Ferramonti, come tutti i miserabili arricchiti navigando in acque poco limpide, conosceva gli uomini, non li stimava, e soprattutto ne diffidava: tre motivi per indurlo a negare l'onore ed il piacere della sua relazione a chi avesse potuto valersene per dargli delle seccature. Aveva delle massime sordide di egoista. È una bricconata prevalersi della buaggine di un amico per frecciargli la borsa col domandargli dei prestiti di favore. Quando s'è al verde, si trova danaro, come si trova una libbra di pane, rivolgendosi a chi lo commercia e pagando la dovuta provvigione. Questo se si ha credito. Se non si ha credito, segno che non si vale un baiocco, ed allora il miglior consiglio è gettarsi a fiume con una pietra al collo. Per conto suo, egli non avrebbe prestato dieci lire all'amichevole ad un morente di farne. Prestava bensí ad interesse, per un istinto d'uomo sempre vissuto negli affari.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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