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      Ebbene, egli tirava in ballo i suoi furori politici per sfogare guastasangui di tutt'altro genere. Aveva commesso un paio di quegli spropositi, che un uomo della sua qualità non può perdonarsi. Era fallita la Banca dell'Agro romano all'impensata, un mese prima delle sue previsioni, sul piú bello del giuoco al rialzo sulle azioni di quell'Istituto. Barbati, per ingordigia, aveva troppo indugiato a disfarsi di una partita di tali titoli, che gli era rimasta per incartarci il salame. In compenso, le «Banca Italica» andavano alle stelle, ed egli era stato cosí bestia da non conservarne, nel suo cassetto, neppur l'odore. Si sarebbe dato volentieri dei pugni nel capo. L'aveva a morte con quei furfanti degli amministratori della Italica. Dire che lo ricompensavano con una famosa ingratitudine della propaganda da lui fatta all'Istituto la decorsa primavera, e non gli lasciavano neppur le briciole di quella pappolata solenne! Che mondo birbone!
      Nondimeno, aveva delle consolazioni: un contratto di fornitura d'oggetti di vestiario ad un collegio comunale, e l'arredamento completo di un monastero in formazione. I maligni potevano sogghignare a piacere: non era agente d'affari in genere, lui? Del resto, il suo nuovo socio aveva sempre lavorato appunto in articoli di vestiario e di mobilio. Bisognava, perdio! essere idioti ed invidiosi, per maravigliarsi che un galantuomo cerchi di guadagnar quattro soldi in un modo, piuttosto che in un altro.
      Quella sera i Barbati si affrettavano a finire di desinare, in causa appunto del nuovo socio.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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