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      Ma n'ebbe appena per qualche giorno; poi anche quel miraggio ultimo si dileguò. Ella stessa scoprí, senza farsi illusioni, i primi sintomi della rivincita d'Irene. Ed ella stessa sventò gli equivoci, provocando di propria iniziativa una spiegazione franca, che risparmiò la commedia meschina di una separazione strascicata per gradi. Non voleva piú udir parlare dei Ferramonti; ma nudrí da quel momento l'idea ferma di una vendetta. Frattanto, si accordava delle distrazioni.
     
     
      XIII.
     
      Passarono, uno dopo l'altro, rapidamente, vari mesi. Irene occupava le intere giornate in casa del suocero. Non furono piú possibili i ritrovi nel salottino di via Torre Argentina, quantunque i Furlin avessero cercato ogni mezzo per prolungarne l'abitudine. Appunto come due seccatori ostinati, il funzionario e sua moglie continuarono a presentarsi seralmente dalla cognata, fino ai primi giorni di dicembre. Non volevano accorgersi di esserci di piú, importuni, non desiderati; spiegavano un coraggio perseverante, degno davvero di causa migliore.
      Talvolta sorprendevano Irene nell'affaccendamento di una massaia meticolosa, che trova in rivoluzione la casa, e che ha un diavolo per capello. Li salutava appena, invitandoli a sedere, giacché erano venuti, con quel fare brusco e sgarbato che accompagna le cortesie forzate. Poi si eclissava, lasciandoli delle ore a guardarsi reciprocamente, comparendo e scomparendo ad intervalli rapidi, riuscendo a stancare la loro pazienza, prima di aver barattato venti parole. Altre volte si mostrava oppressa, colle membra rotte da una giornata di fatica, sul punto di andarsene a letto all'ora dei polli, incapace di tener dietro a qualunque discorso.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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