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      Accadeva specialmente quand'ella indugiavasi troppo dal suocero. Aveva pregato Mario di darsi la pena di passare, verso le ventiquattro, da Torre Argentina, e di venirle incontro fino a Campo di Fiori, se non era ancora rientrata in casa. Non aveva altro mezzo per evitare di trovarsi sola, di notte, nelle strade piú turbolente di Roma. E non ne aveva mai avvertito il suocero, per motivi ch'egli poteva bene imaginare.
      Poi l'incidente le valse per riprendere coraggiosamente la difesa del cognato. Bisognava almeno rendere a Mario questa giustizia: che egli era pieno di gentilezza e di riguardo. Nessun altro si sarebbe preso un incarico uguale, una vera seccatura, che lo esponeva, quando i loro incontri mancavano, a restare delle ore in sentinella su e giú per Campo dei Fiori, a sorvegliare lo scarico dei broccoli e delle rape.
      D'altra parte, Mario la metteva di buon umore. Ella voleva che questa facile vena di gaiezza fosse comunicativa anche per padron Gregorio. Il primogenito di casa Ferramonti cominciò ad entrare quasi ogni giorno nei discorsi fra suocero e nuora, sempre colla grata provocazione di qualche scherzo. Pareva che Irene ignorasse la leggenda che attribuiva al giovinotto una paternità equivoca; ma certo non lo credeva impastato alla foggia degli altri Ferramonti. Insomma, gli trovava mille buone qualità; lo proclamava simpaticissimo. Egli aveva pure dei difetti, senza dubbio: la storditaggine, la disposizione marcata alla vita dei piaceri: potevasi anche concedere che fosse stato guasto dalle eccessive indulgenze materne; forse dalle cattive compagnie.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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