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      La seguiva un'onda di pensieri osceni; come un dilagamento di sogghigni equivoci e di occhiate impudenti. E quel grande strepito, quel fremente formicolío di vita plebea, eruttato dal lerciume degli anditi, trovava un'ebbrezza acre ed inconsueta a sfrenarsi colle intemperanze ciniche dell'epigramma da postribolo, su quelle due figure recanti nel pandemonio il turbamento e l'incongruenza di un'apparizione elegante.
     
     
      XIV.
     
      Sul finire di febbraio, all'avvicinarsi dei dieci giorni che riassumono le grandi follie dei carnevale popolare, Ferramonti prese ad insistere perché Irene si pigliasse qualche svago. Ella aveva torto: mostravasi troppo non curante di quello che le sue conoscenze avrebbero potuto dire o pensare di lei. Bastava già l'essersi rintanata, volgendo le spalle alla società distinta che l'aveva festeggiata, e sulla quale avrebbe potuto utilmente contare, all'occasione. Non aveva ella stessa pensato, una volta, che la sporca condotta di Pippo l'obbligava a mostrare in qualche modo di non averci colpa col far vedere che non era mutata, lei? Dunque, doveva risolversi. Non la cercavano forse ancora? Non la invitavano tuttavia? Perché risponder sempre con delle sgarberie? Mario l'avrebbe accompagnata senza farsi molto pregare. Ebbene, non c'era bisogno d'altro.
      Padron Gregorio non lasciava scorgere tutto il suo pensiero: egli avrebbe ben preferito che Irene restasse con lui; ma capiva che, in fondo, gli sarebbe stata gratissima di trovarsi costretta a fare il contrario. Era giovine, bella, portata per istinto ad amare certi piaceri e certi splendori della vita.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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