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      Egli, poi, era orgoglioso di una tal donna. Andava celebrandone la bellezza e lo spirito, alludendo nebulosamente ad una grande fortuna che gli sarebbe venuta da lei. Anche verso Mario ostentava l'ammirazione di un fratello verso il fratello da cui la famiglia riceve lustro ed onore. Lo diceva un uomo destinato a far vedere di che cosa fossero capaci i Ferramonti. Con un pallido sorriso d'ubriacone, concludeva che i Romani, pel momento, non se lo potevano neppur figurare.
      Qualche volta peṛ diventava fastidioso: Irene e Mario se lo vedevano comparire impensatamente davanti, ad inframmettersi nei loro colloqui intimi con certe verbose tenerezze d'otre pieno di vino. Pretendeva ch'essi fossero le sole creature rimastegli da amar sulla terra. Gli altri, tutti, anche i Furlin, lo avevano abbandonato, mentre sentiva tanto il bisogno di vedersi intorno facce amiche e cuori affezionati pronti a soccorrerlo. Che serve? Sapeva ben lui, quello che voleva dire. Se si pigliava qualche distrazione, era per mandar via i cattivi pensieri. Non avrebbe dimenticato mai quel che doveva a sua moglie ed a suo fratello.
      Aveva delle cupe inflessioni e delle occhiate livide, che mettevano addosso sordi brividi. Ma la sicurezza dominatrice d'Irene verso quello schiavo abbrutito incoraggiava anche Mario. Per tal modo i due amanti non si davano un pensiero dello sciagurato; non ne avevano riguardo alcuno; arrischiavano vicini a lui, quasi in sua presenza, audacie incredibili. E risolvendo di prender parte ai divertimenti degli ultimi giorni di carnevale, non si curarono affatto di renderlo avvertito.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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