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      Riprese le abitudini di una vita gaia e spendereccia, rituffandosi nella corrente della speculazione di second'ordine. Lo rivedevano nei crocchi degli affaristi, alla Borsa, in grande famigliarità con gli usurai dell'alta scuola e nella turba dei loro cagnotti, la marmaglia ben vestita che vive delle senserie dello strozzo. Era presente dovunque gli si offriva l'occasione di dare la caccia al danaro e dovunque si poteva spenderlo all'impazzata. Per disgrazia, diventava sempre piú inesplicabile come potesse tirare avanti in tal modo. Si accreditava la voce ch'egli avesse trovato il mezzo di mangiarsi in erba l'eredità paterna grazie a qualche anticipatore, o molto accorto, o superlativamente ingenuo. Certo, era quasi impossibile trovare un'altra sorgente ai suoi mezzi: sapevasi che i nuovi affari da lui tentati gli andavano, uno dopo l'altro, alla peggio. Le vecchie volpi del mestiere lo vedevano sopra una china disastrosa. Egli poteva, a piacere, far sfoggio d'una imperturbabilità d'apparenza: ciò non impediva ch'egli avesse perduto la calma dell'uomo sicuro di se stesso, la facoltà delle pronte intuizioni, la forza delle audacie previdenti. Andava innanzi colla testa nel sacco, come se le ubbriachezze delle sue orgie notturne durassero mascherate anche nelle ore ch'egli consacrava agli affari.
      Egli era puramente e semplicemente rovinato, e provava come una voluttà strana in quella lotta formidabile, destinata a rendere piú chiassosa la catastrofe verso la quale camminava velocemente.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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