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      Gli stordimenti di una esistenza febbrile non riuscivano a placare certamente il suo dolore; ma gli risparmiavano almeno certe crisi di viltà, in braccio alle quali le sue solitudini lo gettavano, immancabilmente. Allora l'uomo forte e scettico si sorprendeva a piangere come un bambino. Al ricordo d'Irene egli associava imaginazioni strane, che facevano di lei un essere fantastico, bello e terribile. Delirava nella febbre, nello spasimo, nel martirio ineffabile del suo amore disperato. Avrebbe voluto poter credere che sua cognata fosse un genio delle tenebre, una fata, un demonio, uno di quegli esseri, insomma, cui la favola attribuisce di mercanteggiare coi baci le anime. Egli, dei baci, ne aveva già dati tanti ad Irene, e ne aveva ricevuti già tanti; ma che importava? Uniti insieme tutti, non valevano quell'uno che intendeva lui: un bacio da restarne fulminati!
      Poi, riflettendo, egli si persuadeva di aver sofferto qualche lesione al cervello. Rammentava che una delle forme preferite dalla pazzia, è appunto la fissazione erotica: la passione amorosa. Certo, uno spirito equilibrato non potevasi spingere fino alle sue frenesie. Chi sa! un sistema di cura razionale, in un intervallo di tempo piú o meno breve, poteva forse guarirlo. Forse, andando innanzi di quel passo, ed arrivando a non poter piú dissimulare, gli amici, i Furlin ci avrebbero pensato loro ad assoggettarlo, per amore o per forza, alla cura che gli occorreva, ed allora...
      Egli arrivava a questo punto coi capelli ritti sulla fronte, col raccapriccio dello spavento nelle ossa.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





Irene Irene Furlin