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      Il fenomeno nervoso presentava dei caratteri somiglianti a quelli del delirio alcoolico. Due medici chiamati a prestare la loro assistenza avvertirono la famiglia che il disgraziato avrebbe potuto morire in uno degli accessi.
      Sul fare del giorno la fierezza del male fu vinta. Pippo riposò dieci lunghe ore tranquillo, assopito dalla prostrazione e dalle droghe somministrategli. Ma, al suo risvegliarsi, e nei giorni appresso, quand'egli fu pure in grado di lasciare il letto, apparvero le conseguenze della crisi attraversata. Egli era demente.
      Aveva perduta la memoria. Viveva del presente, incapace di ricevere impressioni di fatti e di oggetti che non avessero colpito materialmente i suoi sensi della vista e del tatto. Lo guidavano come un automa nelle funzioni di quella sua meccanica animalità, in cui era soppressa anche la resistenza passiva. Ma il curarlo in casa, ridotto cosí, diventava un problema insolubile. Risolsero di collocarlo nella casa di salute a Sant'Onofrio.
      Ve lo condussero dieci giorni dopo. Fino alla vigilia, avevano ignorato se l'ultima complicazione dipendesse da una causa esterna qualunque. Alla vigilia poterono almanaccare sul carattere appunto di tal causa. Pippo ricominciò a tremare ed a piangere lungamente, accasciato sopra una sedia. Ma, questa volta, il suo dolore ebbe degli spasimi, dei singhiozzi e delle parole vaghe. Chiamava Irene; l'accusava di farlo morire; e delle frasi interrotte di amore si mescolavano nei suoi balbettamenti ad altre frasi di terrore e di orrore.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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