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      E nella stessa seduta del 9 dicembre 1893 il deputato Laporta deplorò la impunità assicurata ai carabinieri, che commettevano reati; impunità, che produceva reazione.
      In questa impunità dei reali carabinieri, che commettevano reati e nel ricordo della tortura inflitta ad un povero operaio e nel sospettato assassinio del Corrao deve trovarsi la ragione dell'odio che nei dintorni di Palermo divenne generale contro i Reali Carabinieri e che esplose selvaggiamente durante la insurrezione del 1866.
      Dell'uguaglianza innanzi alla legge e della indipendenza della magistratura, poco dopo la caccia data ai renitenti, gli italiani si formarono un concetto adeguato nell'appendice al processo dei pugnalatori. Furono arrestati e perquisiti per ordine delle autorità giudiziarie alcuni membri dell'alta aristocrazia; ma un ordine venuto da Torino fece sospendere la continuazione del processo! In Palermo l'autorità politica era rappresentata dal conte di Monali; era procuratore generale il conte di Castellamonte. Quest'ultimo sdegnato della indebita ingerenza del governo si dimise! Si cominciava bene...
      Se l'azione del governo italiano fu tale da rinforzare anziché un autorevole ministro della monarchia, il Cordova – lo spirito che generò la mafia, la diffidenza sistematica contro i poteri pubblici; lo stesso governo italiano agì in guisa da favorire direttamente lo sviluppo della mafia. Calunnio forse? No; riproduco ciò che l'on. Depretis riferiva nel citato discorso dell'11 giugno 1875. Egli spigolò nell'Inchiesta del 1867 le seguenti parole: «Un altro personaggio dice: “La questura venne a transazioni colla mafia ed i suoi componenti”. Cosí altre dichiarazioni nello stesso senso di cui faccio grazia alla Camera.


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La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi
(1860-1900)
di Napoleone Colajanni
pagine 91

   





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