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      Io quindi avviso dover rigettarsi, come impossibili o nocevoli, le proposizioni dei siciliani ambasciatori; e trattare accordi alle condizioni vere, giuste, persuadenti, di sopra esposte. Per lo che cesserà la ribellion di Palermo, o la colpa di durarla resterà tutta dei Siciliani, non divisa, quale oggi appare, col popolo e Governo di Napoli.
      Ma nulla ostante, i ministri del re, con pompa di vecchie astuzie, dieron risposte vaghe, disadatte: non concederono, non rigettarono. Napoli, come avviene nella vera o creduta libertà, voleva essere tiranna su gli altri; sì che, sdegnandosi della offerta pace, la chiamava temerità e seconda ribellione, maggior della prima. Superbia nostra impediva gli accordi, superbia propria concertava nuove discordie nell'isola; ed a questa insensata passione son debite tante morti e tanti danni. Le città più avverse erano Palermo e Messina, che per qualità di natura e di stato hanno condizioni sì varie, che mancherebbe, se lo sdegno non le acciecasse, ogni motivo al contendere: Palermo è capo, Messina è forza dell'isola; l'una dell'altra libera e bisognosa. Ma sbandito il ministerio della ragione, le opere dei due popoli e dei due Governi erano turpi e disordinate. Il re, offeso nel nome, nei beni, nella potestà, nel decoro, voleva sulle ribellate province aspro e sollecito gastigo; secondavano quello sdegno i ministri, la Giunta, il popolo; fu apparecchiata una spedizione di novemila fanti, cinquecento cavalli, un vascello, due fregate, parecchi legni minori da guerra e da corso; tremila altri fanti erano in Messina, Siracusa e Trapani. Si consultava nei consigli del re la scelta del duce supremo di quelle squadre, quando voce di popolo (in grazia del nome) preconizzò il generale Florestano Pepe, che il Governo nominò e pregò; però che quegli a malgrado accettava l'onore.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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