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      Giunti noi a Monteforte, se io comandava di combattere le schiere del Morelli, il mio reggimento le combatteva; ma io comandai di unirsi ad esse, e tutti si unirono per obbedienza ed esempio. Dirò anzi cosa verissima: io che non poteva palesare ad ognuno le oneste cagioni di quelle mosse, e che di tutti conosceva l'avversione alle novità di Stato e la fede al re, colle cose che dissi e colle ordinanze del marciare o del fermarci intesi a far credere che si andasse ad espugnare il campo di Monteforte, né rivelai le intenzioni vere se non in mezzo a quel campo, quando era l'opera irrevocabile. Strano giudizio è ora questo! Siamo rei nella stessa causa, e qui seduti insieme sulle scranne del pericolo, io, perché nei fatti gravissimi di que' tempi operai a mio senno, e costoro, perché non operarono col senno proprio; per me dunque è delitto la libertà delle azioni, ed è delitto per essi non avere agito liberamente; la cieca obbedienza era debito a me, e il non averla avuta è colpa; la cieca obbedienza non è merito a loro, è delitto. Pensate, o giudici, alla natura di questa causa, di Stato per me solo, di disciplina per gli altri del reggimento. Fareste cosa giustissima (quando mai fosse delitto di maestà quel movimento) punir me colpevole, salvar coloro innocenti, e ricercare un mio soldato che disertò nel cammino per castigarlo secondo le ordinanze della milizia. Ripeterò in breve il mio concetto: tutti innocenti, o reo per tutti sol io.
      Durò il dibattimento più che tre mesi, parlarono a difesa gli avvocati animosamente, come non fosse causa di maestà in tempi pericolosi e feroci. La sentenza fu data da sette giudici: tre furono per la libertà degli accusati, però che non constava di colpa nelle rapportate azioni, o si trovava rimessa dal perdono del re; e gli altri quattro ne condannavano trenta di morte, tredici di ergastolo o galera.


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Storia del reame di Napoli
di Pietro Colletta
pagine 963

   





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