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      – Dunque? – gli domandarono gli assassini, – vuoi aprirla la bocca, sì o no? Ah! non rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!...
      E cavato fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff... gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
      Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
      – Ho capito, – disse allora uno di loro, – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
      – Impicchiamolo, – ripeté l’altro.
      Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
      Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai.
      Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
      – Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata.
      E se ne andarono.
      Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio di una campana che suona a festa. E quel dondolìo gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro.


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Pinocchio
di Carlo Collodi
pagine 153

   





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