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      – Sta bene.
      Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.
      – Finora questa fatica di girare il bindolo, – disse l’ortolano, – l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
      – Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio.
      – Volentieri.
      Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
      Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
      – Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova!
      E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
      – Chi sei?
      A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
      – Sono Lu...ci...gno...lo.
      E dopo richiuse gli occhi e spirò.
      – Oh! povero Lucignolo! – disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.
      – Ti commovi tanto per un asino che non ti costa nulla? – disse l’ortolano. – Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
      – Vi dirò... era un mio amico!...
      – Tuo amico?
      – Un mio compagno di scuola!...
      – Come?! – urlò Giangio dando in una gran risata. – Come?! avevi dei somari per compagni di scuola!... Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!...
      Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.


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Pinocchio
di Carlo Collodi
pagine 153

   





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