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      Otto anni dopo la rividi; eravamo due giovinette. Sua madre pregò il mio babbo di lasciarmi andare a passar alcuni giorni a Vercelli con sua figlia. La poveretta si fece di brace e non appoggiò l'invito. Mio padre non accettò. Pochi giorni dopo mi scrisse confessandomi d'aver mentito la sua condizione in collegio, perchè s'era accorta che esser figlia di gente che aveva bottega era la cosa più vergognosa che si potesse immaginare nella nostra stupida aristocrazia da collegiali. Dopo otto anni duravano ancora le funeste conseguenze di una volgare abitudine da scolarette.
      Un altro fatto anche più disgraziato.
      Il mio nonno molte volte, mentre era fuori con me, mi aveva fatta entrare in un botteghino, dove si provvedeva di carta, inchiostro e tutto quanto gli occorreva per lo studio.
      In quel botteghino, oltre la donnetta che serviva al banco, vedevo spesso una ragazza lunga, allampanata, timida, che non osava guardarmi, e si faceva di brace se la guardavo io.
      Quando fui in collegio, un bel giorno vidi entrare in classe un'esterna, che riconobbi subito per la figliola del botteghino, sebbene lei, tutta vergognosa, fingesse di non conoscermi.
      Allora, sempre dietro quella falsa idea che i bottegai fossero bassa gente, e l'avere bottega fosse cosa umiliante, da vergognarsene, mi venne l'ispirazione generosa di avvertire tutte le esterne che la mamma di quella ragazza aveva un botteghino da cartolaio nella contrada del collegio; e che si guardassero bene dall'andare là a provvedere i quaderni, ed i fogli da compiti, e le penne.


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La gente per bene
di Marchesa Colombi
Editore Galli
1893 pagine 196

   





Vercelli