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      Le sue compagne le dicevano: «Già, tu sei innamorata del figlio del Dottorino».
      L'ardire cavalleresco di Rachele non arrivava fino a confessare apertamente il suo amore. Ma nel suo donchisciottismo giovanile, era contenta che lo indovinassero. Suo padre disprezzava quel giovine, e lei lo amava. Era una riabilitazione. Metteva quel sentimento in ogni cosa. Aveva adottato un motto, che scriveva in testa alle sue lettere, sui fascicoli di musica, sui libri, dappertutto:
     
      «Povera e ignuda vai, filosofia»
     
      Possedeva quello sciocco libretto del linguaggio dei fiori che piace tanto alle collegiali, e portava sempre in petto dei fiori simbolici; molte volte erano tanto strani che attiravano l'attenzione. Portò per un pezzo un tulipano, la dichiarazione d'amore; era quella che aspettava da Giovanni.
      Un giorno fu veduta con un garofano puntato colla testa in giù.
      «Perché ti metti quel garofano al contrario?».
      «Vuol dire amore incompreso».
      In un giorno di scoraggiamento si mise alla cintura un cardo selvatico, che punse le amiche quando vollero abbracciarla. Era il simbolo dell'infelicità.
      Si ricamava dei goletti stravaganti, dove, invece dei soliti disegni d'ornato dei ricami in bianco, c'erano delle viole del pensiero con una leggenda sentimentale, delle colombe con una cartolina in bocca su cui c'era un motto poco leggibile.
      Tutte fatiche perdute, perché nella minutezza quei particolari passavano inosservati; e Giovanni era troppo orso perché le chiacchierine delle ragazze, che ci vedevano chiaro, giungessero fino a lui.


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Il tramonto d'un ideale
di Marchesa Colombi
pagine 171

   





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