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      Le cave e le fornaci di calce non sono più abitabili; e d'altra parte v'è la legge contro i vagabondi. Quando si è stato Krumiro, e per conseguenza proprietario, non si vuol risicare di farsi condannare per vagabondaggio.
      La casa (chiamiamo così il covile del Krumiro) se nel giorno molto vicino della dispersione non sarà un vantaggio, non sarà nemmeno un imbarazzo. Il Krumiro ne uscirà senza portarsi nulla, lasciando al proprietario o al vento la cura di spazzarla via e di farne sparire la traccia.
      I materiali, quando saranno abbattuti a terra, non si distingueranno affatto dai detriti che oggi li circondano. Non sono che delle assicelle mezzo ammuffite, del cartone spalmato di bitume della terra, del traliccio da imballaggio, di quanto la fortuna feconda fa capitare nelle mani del Krumiro.
      Egli si rannicchia sotto questo ammasso di rimasugli, colla sua famiglia, se ne ha, oppure coi suoi conigli e può dire: Io sono in casa mia.
      La sua casa non è confortevole più della camera d'un locatario del quartiere Doré. Essa non è più grande, nè più illuminata nè più difesa contro i torrenti, che cadono dal cielo, e contro quelli che in tempo d'uragano scorrono davanti alla porta.
      Essa non è abbastanza solida: capita talvolta di cadere addosso al suo proprietario, che la rialza o la rifà all'indomani.
      Siccome all'interno della stamberga vi è una specie di cucina, così questa spesso è piena d'un fumo denso, nauseabondo per la natura dei combustibili che là dentro vi si bruciano.
      Certi Krumiri passano là le loro giornate, poichè non hanno tutti delle professioni ambulanti, e in mezzo a loro ve ne sono molti, che cominciano le proprie escursioni al cadere della notte e le terminano all'aurora.


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Milano in ombra.
Abissi plebei
di Lodovico Corio
Civelli Milano
1885 pagine 124

   





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