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      Ma, prima di ammetterli, vorrei rammentar loro i propri doveri; far comprendere che essi sono i maestri del popolo, e specialmente della gioventú; che debbono insegnar la virtú e che, solo insegnando la virtú, possono sperare di elevarsi al di sopra di que' giocolatori e saltimbanchi, che vediam per le piazze occupati a guadagnare l'alimento del loro ventre, molcendo l'infingardaggine altrui; che non debbano mentir mai cose indegne degl'iddii, né dare ai medesimi le vili passioni de' mortali, né dirli autori de' mali o facili a cangiarsi per doni(224): menzogne tutte, appena tollerabili negli antichissimi poeti, ma non lodevoli ne' posteriori, i quali le ripetono sol perché sperano piú facilmente ottenere lo spirito poetico dallo studio dei canti di Omero che da quell'intimo senso che è in noi stessi e che gli antichi chiamaron Mnemosine e madre delle muse(225).
      Or questi tali inutili ripetitori di vecchie menzogne noi chiameremo facitori di carmi, ma non mai poeti. Tal nome noi daremo a quei soli, i quali, sia che lodino gl'iddii, sia che narrino o imitino sulle scene i fatti e le parole degli eroi, sia che narrino o imitino le debolezze e le stoltezze degli uomini (poiché nelle cittá corrotte vi è maggior bisogno d'istruzione per ischivare gli esempi cattivi che per imitare i buoni), non obbliano mai il fine di render lo stato della cittá piú durevole e migliore. Tali si dice che sieno stati quell'Orfeo, che dalla Tracia recò in Grecia i primi riti della religione e le prime leggi della civiltá, e Lino, e, in tempi da' nostri meno lontani, quel Tirteo, inviato dallo stesso Apollo per ristabilire la virtú di Sparta.


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772

   





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