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      Tra tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno piú innanzi di tutti gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come suol dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli affari; tono e carattere che un momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della medesima. Vi fu mai legge piú giusta di quella che obbligava i giudici a ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e non capricci? Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse. Si può credere che Simonetti pensasse di buona fede che i giudici non fossero obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradí la sua propria coscienza, tradí il re, perché la legge, che egli abolí, non era opera sua, ma bensí di Tanucci.
      Gli esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a questo solo, perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che i difetti di organizzazione de' quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da non rispettar piú neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò che tutt'i ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l'amministrazione della giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione, nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa pel militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per l'uomo che non ne possedeva, ecc. ecc.


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Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799
di Vincenzo Cuoco
pagine 270

   





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