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      Si vide allora che non bastava non aver offese le leggi per esser sicuro.
      «Finalmente tutti coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietá verso la sedicente caduta repubblica». Quest'ultimo comprendeva tutti.
      Per questo articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher, quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non poté reggere all'idea del massacro, dell'incendio e della ruina totale di Napoli, che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte colui che per ventiquattr'ore l'ha veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata senza delitto!
      «Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un'adunanza patriotica è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un governo democratico, è un'azione indifferente), pure Sua Maestá, per la sua innata clemenza, li condanna all'esilio in vita colla perdita de' beni, se abbiano prestato il giuramento; quelli che non l'hanno prestato, sono condannati a quindici anni di esilio».


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Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799
di Vincenzo Cuoco
pagine 270

   





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