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      Dalla galleria delle macchine francesi si viene in un lunghissimo viale tutto vermiglio di rose, e di là.... Ma non c’è un lettore ragionevole il quale pretenda da me la descrizione dei così detti «annessi» del palazzo del Campo di Marte; che formano essi soli una seconda Esposizione universale. Sono due miglia di giardini, d’orti, di tettoie, di padiglioni, di case rustiche, in cui ricomincia la serie dei musei e delle officine; e c’è da girar per un mese. Qui si trattengono soltanto gli «specialisti.» La maggior parte dei visitatori non ci va che per rinfrescarsi la testa all’aria libera. Ma là c’è da farsi un concetto di quel che costò la costruzione di quella gran città passeggiera, e di quello che costa continuamente il farla vivere. È una cosa che sgomenta davvero. Bisogna considerare prima il grande lavoro del livellamento, per il quale si smossero o si trasportarono cinquecentomila metri cubi di terra; rappresentarsi l’enorme trincea che serpeggia sotto il palazzo del Campo di Marte, e distribuisce in sedici grandi correnti l’aria addensata dai venditori; abbracciare col pensiero l’azione poderosa dei grandi «generatori» che provvedono il vapore alle macchine motrici; il lavoro titanico delle trenta macchine motrici che trasmettono la vita a tutte le macchine dell’Esposizione; il movimento continuo delle formidabili trombe aspiranti che assorbono dei torrenti dalla Senna e li rispandono, per un labirinto di canali e di serbatoi sotterranei, ai condotti del Campo di Marte, ai bacini, alle fontane, agli acquarii, agli ascensori delle torri, alla cascata del Trocadero; rappresentarsi la rete infinita di strade ferrate che coprì quello spazio durante i lavori di costruzione, e le macchine innumerevoli che aiutarono le braccia dell’uomo al collocamento delle cose enormi; poi richiamare alla mente il lavoro immenso e febbrile dell’ultimo mese, un esercito d’operai d’ogni paese, formicolanti sull’orlo dei tetti, sulla sommità delle cupole, nelle profondità della terra, sospesi alle corde, ritti sulle impalcature vertiginose, a gruppi, a catene, a sciami, di giorno, di notte, al lume delle fiaccole, al bagliore della luce elettrica, in mezzo a nuvoli di polvere e di vapori, sollecitati da mille voci in cento lingue, in mezzo al frastuono d’un mare in tempesta e ai fremiti d’impazienza del mondo, – e infine ricordarsi che ne uscì quasi inaspettatamente quel meraviglioso caravanserai di cento popoli, pieno di tesori, di vegetazione e di vita, – e che ventiquattro mesi prima non c’era là che un deserto; – allora non si frena più quel sentimento d’ammirazione che, al primo entrare, era stato turbato da un effetto spiacevole d’apparenza.


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Ricordi di Parigi
di Edmondo De Amicis
Treves Milano
1879 pagine 192

   





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