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      Certo è che egli sente altissimamente di sè, e non lo nasconde. Tutti sanno quello che disse, ancor giovane, all’attrice Mars, che si permetteva, alle prove dell’Hernani, di criticare i suoi versi. — Signorina, voi dimenticate con chi avete da fare. Voi avete un grande ingegno; non lo nego; ma ho un grande ingegno anch’io, e merito qualche riguardo. — Io lascio ad altri il risolvere questa quistione: se, in qualche caso, uno smisurato sentimento di sè non sia un elemento del genio: quello che dà l’impulso ai grandi ardimenti; e se, ammessa la indole artistica di Vittor Hugo, sia possibile concepire un Vittor Hugo modesto. Mi ristringo a considerare il fatto. Si, Vittor Hugo dev’essere sovranamente orgoglioso. Si riconosce da mille segni. Egli, per esempio, – è cosa notissima, – non ammette la critica. Il genio, dice, è blocco. Bisogna accettarlo intero o respingerlo intero. L’opera del genio è un tempio in cui si deve entrare col capo scoperto, e in silenzio. On ne chicane pas le génie. Ammirate, ringraziate e tacete. Il genio non ha difetti. I suoi difetti sono il rovescio delle sue qualità. Ecco tutto. Egli lo ha detto a chiare note nel suo libro sullo Shakespeare, nel quale s’è servito del tragico inglese per dire al mondo quello che pensa di se stesso. Il ritratto ch’egli traccia dello Shakespeare è il ritratto suo; quella deificazione che egli fa del genio, la quale per un uomo che creda in Dio è quasi sacrilega, è, insomma, la sua apoteosi; in quell’oceano a cui paragona i grandi poeti, si vede riflessa, prima d’ogni altra, la sua grandezza; quella montagna che ha tutti i climi e tutte le vegetazioni, è Vittor Hugo.


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Ricordi di Parigi
di Edmondo De Amicis
Treves Milano
1879 pagine 192

   





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