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      Nei discorsi al Parlamento, negli articoli delle gazzette, nelle scritture delle accademie, si chiama il popolo spagnuolo, senza perifrasi, un pueblo de héroes, la grande nazione, la meraviglia del mondo, la gloria dei secoli. È raro il sentir dire o leggere cento parole da chi si sia e a qual si voglia uditorio, senza che o prima o poi non suoni il ritornello obbligato di Lepanto, di scoperta d'America, di guerra d'indipendenza, a cui tien dietro sempre uno scoppio d'applausi.
      E appunto la tradizione della guerra d'indipendenza costituisce nel popolo spagnuolo una forza intima[243] immensa. Chi non sia vissuto o poco o molto in Spagna non può credere che una guerra, per quanto fortunata e gloriosa, possa lasciare in un popolo una così profonda fede nel valor nazionale. Baylen, Victoria, San Marcial sono tradizioni per la Spagna assai più efficaci che non siano per la Francia Marengo, Jena, Austerlitz. La stessa gloria guerriera degli eserciti di Napoleone, veduta a traverso la guerra d'indipendenza che vi stese su il primo velo, appare agli occhi della Spagna assai meno splendida che a ogni altro popolo d'Europa. L'idea di una invasione straniera desta negli Spagnuoli un sorriso di sdegnoso disprezzo; non credono alla possibilità d'esser vinti nel loro paese; bisognava sentire con che tòno parlavan della Germania quando correva voce che l'imperatore Guglielmo fosse risoluto a sostenere colle armi il trono del duca d'Aosta. E non c'è dubbio che, se avessero a combattere una nuova guerra d'indipendenza, forse combatterebbero, con meno fortunato successo, ma con prodezza e costanza pari a quella maravigliosa che spiegarono allora.


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Spagna
di Edmondo De Amicis
Barbera Firenze
1873 pagine 422

   





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