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      Il Caraffa avea già citato il frate a Roma. E questi lasciò Venezia nell'audace pensiero di presentarsi. Egli era in quel punto generale del suo ordine. Giunto a Bologna, conferisce col Contarini, che già moribondo, e per le cose di Roma anelante di riposare nella tomba, gli volge poche parole d'esortazione a durare ne' suoi religiosi propositi e lo manda con Dio. Abboccatosi a Firenze col Martire, questi lo dissuase dalla visita a Roma, svelandogli i disegni del Caraffa, facendogli toccar con mano la sua morte già risoluta. Smosso da quel proposito, si concertarono sulle vie della fuga.
      Primo si tolse l'Ochino, movendo verso Ferrara; ove la duchessa Renata, per fare che più sicuro e sollecito attraversasse la Lombardia, lo aiutò in ogni modo contro i birri che gli stavano sulle peste. Non senza pericoli, giunto con un frate compagno sulla vetta del San Bernardo, ei s'arrestò, con dolore riguardando indietro, forse scorrendo nel suo pensiero gli applausi de' popoli e gli onori trionfali che avea ricevuto per le cento città della sua bellissima patria, che abbandonava per sempre. Dati al compagno i sigilli dell'Ordine, essendone egli ancora generale, licenziossi da lui. E il vecchio predicatore solo, tristissimo, a piedi, scendeva l'altra china.
      Il Martire, prima d'esalare compieva e publicava una sua professione di fede, in cui modestamente ma chiaramente dichiara le proprie opinioni, tracciando il lato morale e pratico della riforma, però contenendosi da ogni parola veemente o aspra contro Roma.


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L'inquisizione e i calabro-valdesi
di Filippo De Boni
Daelli Milano
1864 pagine 117

   





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