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      Esitavano i principi, scorgendo chiaro che ammettendo l'inquisizione dividerebbero l'autorità loro con Roma. Nondimeno l'interna loro fiacchezza, il bisogno d'essere bene con la Spagna o col papa, l'ardire che fugge col sentimento della vita che scema, e l'idea che le novità religiose ingenerano sempre quelle politiche accomodarono tutti alla bolla di Paolo III.
      Il più scaltro di tutti que' principi e bramoso d'onni- potenza, il duca Cosimo I, vi si adattò quasi subito. Amico del nunzio, si maneggiò qualche poco a temperare i procedimenti del Caraffa, cose d'apparenza più che altro, riserbandosi ad agire poi secondo le opportunità, i casi e il proprio interesse gli suggerissero. E questo lo persuase di rado a resistere. E seguitando la storia il vedremmo consegnare perfino i suoi più cari parenti; dietro speranza di granducale corona, lo vedremmo accondiscendere a dare monsignor Carnesecchi, mentre questi alla sua mensa siedeva, a permettere in Firenze un atto-di-fede, una processione di eretici condannati a fare pubblica ammenda, tra i quali Bartolommeo Panciatichi, già suo ambasciatore alla corte di Francia; lo vedremmo lasciar scomporre e interrompere quel moto civile toscano, che tanto avea dato al mondo e tanto poteva ancor dare, abbenchè turbato dalle sue arti e dal suo dispotismo, rovinando per intero le scuole di Pisa e di Siena, facendosi numerare in ogni parrocchia le ostie distribuite per la comunione pasquale.
      Lucca, sebbene piccola, tentò resistere. Questo forse era il luogo, dove in Italia più abondavano i riformati.


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L'inquisizione e i calabro-valdesi
di Filippo De Boni
Daelli Milano
1864 pagine 117

   





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