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      Però l'eroica rassegnazione di altri deluse in parte l'infame disegno. Per istrappare all'un d'essi, Stefano Carlino, confessione siffatta, ei fu compresso di modo nelle torture, che le viscere gli creparono. Altro prigioniero che li storici Valdesi dimandano Verminel, forse Verminello, cognome di certo alterato, quando non sia un sopranome, vinto dagli spasimi all'inquisitore promise di assistere alla messa. Se non che questi sperando con più gagliardi tormenti ottenere la confessione de' supposti delitti, lo fa' indarno straziare per otto ore con uno stromento detto l'inferno. Un altro, di nome Margone, forse Marcone, fu spoglio, fu battuto con verghe di ferro, strascinato per le vie e infine pesto a forza di colpi. Un suo figliuoletto con animo più che virile derise ogni tentativo di conversione; l'inquisitore per vincerlo lo fe' trarre in sui merli d'una torre e minacciò di precipitarnelo, quando non si stringesse al petto e baciasse un crocifisso, che gli andava porgendo. Il giovinetto, avvezzo a niegare qualunque culto alle imagini, durò nel rifiuto, e furibondo quel frate lo fe' slanciare nel vuoto. All'indomani il vicerè passando presso a quel luogo, lo vide giacente per terra e ancora moribondo. E gli die' col piede sul capo e disse: Che! vive ancora questo cane? Venga dunque gettato ai porci che se lo mangino.
      Non ad infamia di alcuno, bensì a medicina degli animi infermi, a guarentigia contro mali avvenire, dobbiamo contaminare, sgomentare ogni fantasia, rimescendo crudeltà sì feroci, che farebbero credere l'umana razza torma di belve.


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L'inquisizione e i calabro-valdesi
di Filippo De Boni
Daelli Milano
1864 pagine 117

   





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