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      Avevo gli occhi sbarrati verso i padri, ma scalza malizia, anzi senza sguardo, con un'aria tra il presuntuoso e lo stupido. Giovannino stava raccolto e placido. Il giovane frate ci faceva le interrogazioni; il vecchio prendeva note come un cancelliere; talora si sogguardavano. A me quel prendere nota dava sui nervi; e un certo risolino loro mi spiaceva. Ci fecero leggere, tradurre; poi vollero una versione d'italiano in latino. Lí ci cascò l'asino. Non fu possibile uscirne a bene con quel metodo meccanico dello zio. Dovemmo fare parecchi errori grossi, e quelli si fermavano leggendo, con quel tal piccolo riso, che voleva dire: "Come s'insegna male il latino!". E ci fecero capire che non che essere ammessi nelle scuole superiori, potevamo appena entrare nelle elementari. Uscimmo con gli occhi a terra. La mia superbia era fiaccata. Cosí non si parlò piú di Gesuiti, e me ne rimase questa impressione.
      Zio ci menò presso l'abate Fazzini. Bel palazzo e bella casa. L'abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte carezze e ci dié de' confetti. Era un bell'ometto, vestito di nero, con cravatta nera, tutto bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava la parola col sorriso e col gesto elegante. Non c'era ancora il laico, ma non c'era piú il prete.
      La scuola dell'abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi s'insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva anche fare in due. Quell'era l'età dell'oro del libero insegnamento.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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