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      Questa mia inattitudine alle matematiche non so s'era colpa mia o del maestro; certo è che di quegli studi non mi è rimasto nulla. Ero avvezzo a studiare con l'immaginazione, e quei numeri e quelle linee cosí in astratto non mi capivano in mente. Non era un po' colpa del metodo? E poi il maestro aveva troppa fretta, e non faceva quasi altro che ripetere sulla lavagna il libro di testo. Queste lacune nel mio spirito erano dissimulate dalla potente memoria, e perché ripetevo tutto, pareva anche a me di sapere tutto. Portavo la testa alta tra i compagni, e una voce segreta mi diceva: "tu vali piú di loro". La lezione avuta dal Gesuita non mi aveva corretto, perché nel latino non la pretendevo a gran cosa. Ma quanto a letteratura e a filosofia, ci tenevo.
      Volgevano verso la fine gli studi filosofici. Era il dí onomastico dell'abate. Per celebrare la sua festa volle dare una serata, una specie di accademia con versi e prose, in fine complimenti, gelati e confetture. Giovannino e io ci preparammo. Avevamo tra mano calde, calde certe poesie del Capasso in dialetto napoletano. Giovannino vi raffazzonò un sonetto, un luogo comune, girato assai bene in quattordici versi, con frasi goffe tolte a imprestito dal poeta napoletano. A me parve questa cosa troppo facile e troppo andante, e mi si volgeva nell'animo non so che Iliade, qualcosa di grosso. Sudai al gran lavoro una quindicina di giorni. Di qua, di là mi venivano immagini e frasi; non so come, mi brillavano accanto a un'immagine di Omero una frase di Virgilio e un verso sciolto del Trissino, che leggevo allora allora.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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