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      Ne nacque una putrida in versi sciolti, un volume di carta scritta, da far paura. Andammo. Io era alto della persona, magro e svelto, tutto pulitino, e non capivo in me con quello scartafaccio sotto al braccio. La sala era piena. Molte signore con le bambine, numerosa gioventú, vecchi papà bene azzimati. L'uscio di faccia era aperto, e ne veniva un grato odore di confetture. L'abatino in guanti faceva assai bene gli onori di casa, di su di giú, sdrucciolava fra tutti i crocchi, dispensando sorrisi e strette di mano e gentili motti. C'era quel mormorio, che suol venire da una mescolanza confusa di voci. Ed ecco tutto a un tratto si udí un: "zitto!", e tutti gli occhi si volsero verso la tribuna. Chi è, chi non è? Ero proprio io col mio personcino e con la mia superbia. Stavo lí dritto squadernando il sacro volume e precipitando versi sopra versi correndo senza fiato. C'era una certa curiosità, e dapprima si udiva con pazienza. Poi a ogni voltata della carta si cominciò a guardare con raccapriccio a quello che rimaneva. E volto e volto, e pareva che fossi sempre da capo. Quella gente era venuta non a sentir versi, ma a conversare e a manicare, e non osavano pestar dei piedi, era gente educata, ma si movevano in qua e in là, come chi non trova posa. Ippolito Certain, quel tal maestro di disegno che abitava con noi, stava presso a me e notava tutto, con lo sguardo verso l'uditorio; io con gli occhi sulla carta continuava tronfio e precipitoso, come un torrente, rotte le dighe. Ippolito mi mise la mano alla bocca e disse: "Ferma che è tardi", e la gente voleva andare.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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