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      La scuola ci aveva non piccola parte, perché era scuola di forme e non di cose, e si attendeva piú ad imparare le parole e le argomentazioni, che le cose a cui si riferivano. Oltre a ciò, ero miope, uso piú a guardare dentro a me che fuori. Quando mi si avvicinava una persona, restavo con gli occhi aperti e quasi incantato, tutto pieno delle cose che si dicevano, e non sapevo ridire alcuna particolarità dei suoi tratti o del suo vestire. Parlavo spesso dei mio amore alla natura, ai campi, ai fiori, ai ruscelli; ma era una natura che avevo imparata nei poeti. In verità, non sapevo scerre fior da fiore, e non distinguere albero da albero. Quei mormorii infiniti della natura che sono come la musica o come le lacrime delle cose, non giungevano alla mia anima. Pure l'età mi tirava al di fuori, e anche l'esempio dei compagni. Giovannino mi parlava già dei suoi amori; tutti mi facevano le loro confidenze; guardavo stupido, come chi non ci capisca nulla, e di nuovo a leggere. Avevo una febbre di lettura che mi divorava, e stavo le intere giornate con un libro avanti in un angolo di casa chiuso da un paravento e illuminato fiocamente da una finestra che metteva nel cortile. Poi venne il bisogno di compendiare e di postillare. Talora mi sentivo dolere il magro braccio dal troppo scrivere; mi sentivo gli occhi secchi e abbacinati; uscivo di là come uno scheletro, con un ronzio nell'orecchio, con la testa piena e confusa. In mezzo ai compagni non mi sentivo nessuna voglia di sciorinare le mie letture; già pochi leggevano, pochi erano atti a capirmi, soprattutto allora che poco mi capivo io stesso.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249