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      Il marchese finí che non sapeva piú fare senza di me, e mi cercava con l'occhio e mi chiamava il suo collaboratore. Giovannino ed io divenimmo correttori di stampe. Io me ne tenevo, e mi stimavo infallibile, quando un dí il proto della stamperia m'indicò innanzi al marchese parecchi errori sfuggiti ai miei occhi pazienti, e m'insegnò la modestia.
      Il direttore della stamperia era un tal Gabriele De Stefano, che si teneva da piú del marchese Puoti, e abusando della mia docilità mi faceva scrivere seco, dettando prefazioni e lettere. Un dí avevo scritto su d'una busta un indirizzo, preceduto dalle sacramentali A. S. E. che dovevano significare: a sua eccellenza. Egli trovò che quelle lettere erano troppo sopra, e mi fece un rabbuffo e disse: "Sapete voi cosa significano queste tre lettere? significano: asino senza educazione". Io feci col petto indietro, come avessi ricevuto un colpo di pugnale, e non ci andai piú, e anche oggi quel motto me lo sento sonare nell'orecchio.
      Mi strinsi sempre piú col marchese. Nelle sue annotazioni di lingua e di grammatica ai Fatti di Enea, soleva dire: "Cosa ne dice Francesco?" Io era divenuto una specie di autorità e il marchese mi consultava nelle cose della lingua e della grammatica, come diceva. M'era venuta la frenesia degli studi grammaticali. Avevo spesso tra mano il Corticelli, il Buonmattei, il Cinonio, il Salviati, il Bartoli, il Salvini, il Sanzio e non so quanti altri dei piú ignorati. M'ero gittato anche sui cinquecentisti, sempre avendo l'occhio alla lingua.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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