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      Tutti se ne accorgevano, e però molti non se lo avevano a male, e talora ridevano del mio riso e mi chiamavano poeta.
      Intanto la scuola del Puoti s'era sciolta da sé; il marchese con tutta la famiglia s'era ricoverato in Arienzo, dove aveva alcune possessioni, e s'era messo a dettare un'Arte di scrivere. Gli studenti s'erano riparati nelle case loro, dove non ancora li aveva inseguiti il morbo; anche i fratelli Amante s'erano ritirati nel loro paese. Di questa fuga generale quasi non mi accorsi, tutto pieno del mio compito in casa e fuori casa. Zio era riuscito a levarsi qualche giorno, appoggiato sul bastone; ma questo non accresceva numero degli scolari, e poco scemava la mia fatica.
      Io avevo preso dimestichezza con la casa Fernandez. Il povero Pasqualino, riparato in villa, era stato colpito dal morbo; poi, guarito appena, e sparsasi la voce che andare in villa era peggio che stare in città, fece con la famiglia ritorno. La sua casa era nella strada che conduceva al monastero di S. Pasquale, e c'era un bel terrazzo ombroso, dove solevo passare qualche ora, finita la lezione. A me non piaceva quel fare dottorale di maestro; anzi mi ci seccavo e me ne vergognavo quasi, e quando qualcuno mi diceva: "Signor maestro", quella parola mi sonava male, cosí come essere chiamato un pedagogo o un pedante, e mi sentivo vile al mio cospetto. Questa falsa opinione mi veniva dal signor marchese, che non si lasciava mai chiamar maestro. In quel tempo gl'insegnanti ambivano il titolo piú decoroso di professore, per non lasciarsi confondere coi maestri di musica o di ballo.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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