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      Raccontai il fatto al marchese Puoti, che ne rise assai, e mi volle dimostrare ch'io era nato professore. Il maestro di scuola si dirugginí ai miei occhi, e prese un aspetto simpatico. Pensavo che di tutte le professioni quella di maestro aveva meno di servile, anzi era addirittura una professione di comando. Io non era affitto superbo, e non volevo comandare a nessuno; anzi stavo contento, per naturale modestia, all'ultimo posto; ma quell'ultimo posto lo volevo prendere io, e non volevo che mi fosse assegnato da altri; mi piaceva essere uguale tra uguali, e a chi pretendeva starmi al disopra mi ribellavo.
      Il marchese era allora passato ad abitare in un secondo piano, nella via Costantinopoli. La gioventú affluiva sempre, ed egli affidava a me i piú ignoranti, a fine di scozzonarli, perché la scuola non aveva piú con essi quell'aria di nuovo e di curioso, quello splendore, e il marchese ci si seccava visibilmente. Amava meglio starsene tra pochi valorosi già sperimentati. Quel fare atto di pazienza coi novizi ritrosi e riottosi poco gli andava. Cessato il colera, se n'era venuto di Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. Era una specie di nuova rettorica immaginata da lui, e che egli battezzò Arte dello scrivere. C'era una divisione dei diversi generi accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, Cicerone, Quintiliano, Seneca erano la decorazione. "O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro", cosí diceva, narrando per quali vie era giunto alla grande scoperta.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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