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      Talora venivano alcuni dei piú provetti suoi discepoli, e questi pigliavano la mano e dottoreggiavano e animavano la scuola. Sorgevano dispute, e ci si metteva l'amor proprio; gli "Anziani" volevano mostrare la loro superiorità; gli altri li ribattevano e non se la lasciavano fare; il marchese balzava fuori col suo naturale, le fronti si spianavano e le ore passavano rapide.
      Lunedí e venerdí ero solo io, e la scuola prendeva un'altr'aria. Mutolo e timido, quando il marchese stava lí, allora mi sentiva io, e mi metteva tra quelle panche a confabulare, a interrogare, a spiegare; e presto giunsi ad affiatarmi con quei giovani quasi tutti della mia età. Quando s'era fatto numero, salivo su di una cattedra e dettavo grammatica; poi mi mettevo a tavolino tra un cerchio dei giovani piú attenti, e si faceva la lettura. Col mio fare monotono e severo c'era da morir di noia; ma tant'era la mia vivacità, e la novità delle cose, che presto vivemmo tutti insieme entro quegli studi, e non udivi batter sillaba, e la scuola pareva una chiesa di quacqueri. Ciascuna lezione spremeva il miglior sugo del mio cervello. Io mi ci preparavo per bene, e tutto il dí non facevo che pensare alla lezione, anche per istrada, gesticolando, movendo le labbra; e gli amici dicevano, canzonando: "Che fa De Sanctis? Pensa alla lezione". Talora mi riscotevo, veggendo qualcuno guardarmi e ridere; ma poi tiravo di lungo con aria sdegnosa, come chi dicesse: "Gente, a cui si fa notte innanzi sera".
      Il mio disprezzo dei poltroni e dei vagabondi era infinito, e battezzavo cosí tutti quelli che non si profondavano negli studi.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





De Sanctis