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      La famiglia si riuniva sopra quel terrazzino per sollazzo, e si facevano parecchi giuochi. Un dí giocavamo a chi alzasse una sedia con sola una mano. Lei la ghermiva e la slanciava subito in aria; io mi ci scorticavo la mano, la levava a gran fatica, e il braccio si piegava, e piú ci poneva forza e meno mi riusciva di tenerla alta, ché il braccio mi tremava sotto. La bricconcella se la rideva, e mi mostrava il suo braccio rotondo e rubicondo, e, guardando al mio, diceva: "Il sangue non ci arriva". La sentivo con ammirazione. Poi guardai e vidi che il mio braccio era esile e pallido, e presi l'abitudine di strofinarmi i polsi con la mano per farci venire il sangue. A scuola ero un altro. Giovane tra giovani, esaltato in me stesso; là regnava il cervello, e il cervello straviveva. Nessuno, vedendomi cosí vivace e acceso, avrebbe pensato ch'io fossi infermo; pure, quella scuola si portava via una parte di me. Ventura fu che l'anno volgeva al suo termine, e io potei rinfrancare le forze in Sorrento.
      Capitai in casa di una buona contadina, piuttosto agiata, che aveva una figliuola unica, grandetta e belloccia. La mamma nel dopo pranzo la lasciava con me, e passavo le ore accanto a lei, sedia a sedia, sopra un terrazzino coperto, onde si vedeva un bel cielo azzurro e il tranquillo mare. In altri tempi avrei fatto il poeta, e cavate fantasie graziose dalla luna, dalle stelle e dalle nuvole. Ma ora non mi veniva niente alla lingua, e stavo le ore intere a mirarla, e facevo il Consalvo, timido innanzi alla Divinità, e aspettava una parola da lei, e lei da me, e nessuno parlava.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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