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      Il marchese serbava tutta la sua vivacità sollazzevole; ma nel vedermi fece il muso arcigno. "Tempesta ci cova", pensai io, e salutai. Là ero discepolo tra discepoli, e dei piú umili. Il marchese, nelle sue maggiori collere, non osava mai investirmi e apostrofarmi: il mio contegno taciturno e freddo, la mia aria innocente lo trattenevano. Anche allora sfogò la sua ira per indiretto. Parlò delle monellerie di Pier Angelo Fiorentino e delle velleità di Vaccaro Matonti, "discepoli ingrati come qualche altro", disse, e guardò a me. Io sentii la punta e mi scolorai. E il Gatti mi toccò il gomito ridendo, e disse: "Già, ti è venuto il ticchio di fare il filosofo". "Assai meglio di te", risposi io, che, non potendomi sfogare col marchese, me la presi con lui. Ed egli mi venne su col pugno stretto, adirato non delle parole, ma del tono stizzoso. Si pose di mezzo il bravo Cusani, con buone parole, e ci rappaciò. Il Gatti stimava sé gran filosofo, e gli sapea male che altri gli volesse fare concorrenza. Cusani, dato agli stessi studi, aveva maggiore ingegno, ed era mitissima natura d'uomo. Ed ecco venirmi incontro il marchese e prendermi per mano familiarmente e dirmi: "Sai, mi aveano male informato. Dicono che tu hai fatto le lodi dei puristi". Io rimasi confuso. Pensavo che qualche cicalone gli aveva dovuto travisare la mia lezione, e qualche benevolo gliel'aveva mostrata da un altro lato. Vedendomi sospeso, disse: "Eh! giovanotto, vuoi forse ch'io ti chieda perdono?" Mi scappò una lacrima, e lo guardai commosso.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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