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      Spiccava tra gli altri un don Raffaele, che mi veniva sempre incontro con le braccia tese, gridando: "allegramente!", come per darmi animo a essere de' loro. Costui finí con istallarsi a casa, pigliandosi la sua camera senza cerimonie, con aria di comando, come se il padrone di casa fosse lui. Per un tal modo di vita mi sarebbe occorsa una persona sicura, affezionata e proba; ma la casa era in mano alla servitú, e nessuno ci aveva l'occhio, e tanto meno io, assorto negli studi. Fra tanti chiassi s'insinuava una nebbia di dissipazione e di disordine, che mi dava il capogiro.
      Ma questo turbinío rimaneva al di fuori di me, non mi scalfiva neppure. Il mio naturale tranquillo e concentrato resisteva senza alcuno sforzo alla corrente, e rimanevo sempre io. Non perciò facevo il Catone, ché non era il mio costume; anzi avevo una grande indulgenza. I motteggi non mi destavano collera, e gli scherzi anche grossolani non m'impazientivano. Un risolino, un'alzatina di spalla era la mia risposta. Perciò non perdevo autorità e non destavo antipatia. Stavo tra loro di buonissima voglia, senza confondermi con loro. Medicina efficace era la scuola, che tirava a sé tutto me.
      In quell'anno la scuola s'era molto popolata. V'erano intervenuti giovani d'ingegno, che spiccavano in quella grande moltitudine. Era già venuto Carlo Pavone, giovane bonario e affezionato, concittadino di Magliani. Da Molfetta mi vennero i fratelli De Judicibus, Orazio Pansini, Felice Nisio, Samarelli. Di Calabria vennero Giuseppe De Luca, Liborio Menichini, Francesco Corabi, i fratelli Mazza, Diomede Marvasi.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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