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      Mi portai da fanciullo, e ne venne un pettegolezzo. La fine fu buona: il greco andò via, e abitò in casa del fratello ch'era venuto in Napoli. Ci separammo con segni di cordiale amicizia: che infine quel povero diavolo non aveva altro torto che d'essere un capo scarico, ed era buono d'indole e di cuore, e si faceva voler bene da tutti. Cosí, finiti quei cinquanta ducati tentatori, mi sentii piú ricco. Rimaneva don Raffaele, che mi si era insediato in casa e spadroneggiava. Glielo feci capir bel bello; non se l'ebbe a male e rimanemmo amici.
      Cominciai pure a essere un po' restío agl'imprestiti. Pareva che la borsa mia non fosse mia: ciascuno vi attingeva sotto nome d'imprestito. Quando incontravo qualcuno, quegli mi sfuggiva come un creditore. Mutai la servitú, ch'era gran parte di quella dissipazione, visto pure che molti oggetti sparivano di casa a vista d'occhio.
      Cosí misi un po' d'ordine in casa, e potei con cuore tranquillo passar le vacanze sull'Arenella, in una villetta. Venivano a visitarmi i miei giovani, e passavano con me la giornata, e tanto per non perder l'uso, facevo lezioni alla peripatetica, per il Vomero e per Antignano. La sera mi recavo a una villa vicina, dove si faceva tavola da gioco. Venivano parecchi amici da Napoli e si formava una compagnia scelta e allegra. Là rividi il Pisanelli, mio antico compagno nella scuola del marchese, e già innanzi nella carriera forense. Era un bel giovane, persona alta e svelta, volto pallido, pieno di distinzione, con occhi languidi, dolcissimo di favella e di modi.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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