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      Io usai parole dolci per consolarlo e fargli animo. L'abate presuntuoso si fece piccino piccino, e come in fondo era un brav'omo, divenne un buon compagno e un buono scolaro, e se non fece miracoli, imparò almeno a scrivere naturalmente.
      La scuola era venuta a quel punto che Proudhon chiamerebbe anarchia. Era una piccola società abbandonata a se stessa, senza regolamenti, senza disciplina, senza autorità di comando, mossa dal sentimento del dovere, da stima e da rispetto reciproco, da quello ch'io chiamavo sentimento di dignità personale. Ci eravamo educati insieme. Io avevo per quei giovani un culto, sentivo con desiderio le loro osservazioni e i loro pareri, studiavo le loro impressioni. Godevo tanto a vedermeli intorno con quei gesti vivaci, con quelle facce soddisfatte! Essi guardavano in me il loro amico e il loro coetaneo, e mi amavano perché sentivano di essere amati. Io avevo il loro entusiasmo giovanile, i loro ideali, e, se in loro c'era una parte del mio cervello, da loro veniva a me una fresc'aura di vita e d'ispirazione. Senza di loro mi sentivo nel buio, essi erano lo sprone che mi teneva vivo l'intelletto e lo riempiva di luce. Scrissi nell'album di una signora: "Desiderando di piacere a qualcuno, tu piaci a te stesso e ti senti felice". Patria, libertà, umanità, tutti i piú alti ideali che mi brillavano innanzi, si compendiavano in quest'uno: piacere alla scuola; e lí erano la mia espansione, la mia felicità. Quante volte anche oggi rimemoro quei giorni, e dico: "Com'ero felice allora!


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





Proudhon