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      Quella infilata di titoli, di censi, di rendite, di fitti non mi entrava, non ci capivo nulla. Pure, una cosa m'era rimasta, che don Tommaso avea molti feudi, e ch'io sarei divenuto un gran proprietario. Non so quale influsso magico ha sullo spirito questa parola "proprietario". In provincia un contadino si farebbe tagliare il naso anzi che cedere un pezzo di terra: "il danaro se ne va, la terra resta". E quando hanno danari, li seppelliscono sotto terra, come per impedire la loro fuga. Sono ancora in un'età primitiva: le banche, le cambiali, il credito sono diavolerie ch'essi scongiurano con un segno di croce. Io era rimasto un po' contadino per questo rispetto: i miei danari volavano, non sapevo come, e ci avevo fatto il callo, sicuro che venivano gli altri. Il mio sogno era: una casa mia, con un bel giardino; e, quando giravo per le alture di Napoli, e qualche villetta mi fermava, cadevo in fantasia e dicevo: "Oh fosse mia! Stare qui tra questi fiori, studiare sotto quelle ombre! Diventerei poeta". Figurarsi qual fascino aveva quella carta sulla mia immaginazione! E corsi al marchese Puoti, e gliela porsi. Quell'eccellente uomo, che mi teneva come suo figliuolo, disse: "Adagio! Fosse una canzone, ce ne intenderemmo tu ed io; ma è roba d'avvocati, e potrebb'essere una canzonatura, e saremmo canzonati tu ed io". Si tenne la carta e chiese consiglio a suo fratello Giammaria, che teneva uno dei piú alti posti in magistratura, uomo proverbiale per rettitudine e puntualità nel suo uffizio, e, come noi si diceva allora, uomo all'antica, di cui si va perdendo lo stampo.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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