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      Cosí Berchet, credendo di esporre i canoni del romanticismo, espone i principii ormai ammessi in tutta la letteratura moderna. Vi leggerò un suo periodo che è come un'epigrafe la quale riassume i caratteri della poesia, caratteri immortali applicabili a' greci, a' romani, alle letterature di tutt'i tempi. - Se la poesia è l'espressione della natura viva, ella deve essere viva come l'oggetto ch'ella esprime, libera come il pensiero che le dá moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata.
      Il poeta trova dirimpetto a sé i classici che facevano il mestiere comodo di non studiare letterature e lingue straniere e maledirle, vantando sempre Petrarca e Ariosto e Tasso, a guisa degli eredi degeneri che non possono gloriarsi se non degli antenati. Per combattere queste idee Berchet introduce a parlare un curato, il quale col suo buon senso fa stare a segno coloro che gli parlano dei classici e ne fanno panegirici. Gli si domanda perché non si scrive una poetica romantica. Ed egli:
     
      «Che poetiche di Dio! Se ai giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro, vivesse Sofocle, dovrebbono essi cambiare arte forse? No, in nome del Cielo, no. Ma la differenza de' secoli renderebbe differenti le cose che que' poeti imprenderebbono ora a trattare. E la differenza delle cose indurrebbe di necessitá differenza nella mescolanza delle forme, e nell'accoppiamento delle immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle, sarebbero poeti romantici, volere o non volere. Ma l'arte loro sarebbe tuttavia quella stessa de' classici antichi». Né questo soltanto dice il buon curato, ma dá consigli agli italiani che si reputavano sfortunati, non avendo modelli tali da gareggiare con le letterature straniere, e credevano ciò fosse perché mancava la patria, e si schermivano invocando le glorie passate.


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La letteratura italiana nel secolo XIX
(Volume Secondo) La scuola liberale e la scuola democratica
di Francesco De Sanctis
pagine 590

   





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