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      Di modo che restava che fosse stata messa in me da una natura realmente più perfetta della mia, e che avesse anche in se tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, e cioè, per spiegarmi con una sola parola, che fosse Dio. A questo aggiunsi che, poiché conoscevo qualche perfezione di cui mancavo del tutto, non ero il solo essere esistente (userò qui liberamente, se non vi spiace, alcuni termini della Scuola), ma occorreva necessariamente che ce ne fosse qualche altro più perfetto, dal quale dipendevo e dal quale avevo ottenuto tutto quel che avevo. Giacché se ne fossi stato solo e indipendente da ogni altro e avessi così avuto da me stesso tutto quel poco che partecipavo dell'essere perfetto, avrei potuto avere da me, per la stessa ragione, tutto il di più che sapevo mancarmi, ed essere per tanto io stesso infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, avere insomma tutte le perfezioni che potevo vedere in Dio. Poiché, seguendo i ragionamenti appena fatti, per conoscere la natura di Dio per quanto la mia ne era capace, non dovevo far altro che considerare ogni cosa di cui trovavo in me qualche idea, se era una perfezione possederla, e così ero sicuro che nessuna di quelle che indicavano qualche imperfezione era in lui, mentre vi erano tutte le altre. Così vedevo che il dubbio, l'incostanza, la tristezza e le altre cose simili a queste non potevano essere in lui dal momento che sarei stato anch'io ben felice di esserne privo. Oltre a ciò avevo idee di cose sensibili e corporee: giacché anche se supponevo di sognare, e che fosse falso tutto quel che supponevo o immaginavo, non potevo negare tuttavia che le idee di queste cose fossero realmente nel mio pensiero.


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Discorso sul metodo
René Descartes
di
pagine 69

   





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