Eglino, qualora è vicina la messe, per mantenere il prezzo de’ grani, spacciano che la ricolta sarà scarsa, e che la mancanza, o l’abbondanza delle acque, e i venti perniciosi hanno seccato i seminati. Qualora poi arriva il tempo dell’estrazioni, cambiano linguaggio, e decantano l’eccessiva quantità de’ frumenti, che si sono raccolti, per animare il governo a permetterle. È cosa deplorabile, e fa inarcare le ciglia a’ filosofi politici, che nella Sicilia, il granajo d’Italia, e dove non dovrebbe giammai udirsi il nome di carestìa, si oda, e si soffra spessamente. Ingannato adunque il conte di Albadalista dalle cabale di costoro, accordò nell’anno 1588, che si estraessero dal regno tanti grani, quanti ognuno ne volea trasportare. Restata la Sicilia sprovista, accadde in verità carestoso l’anno 1589, e di gran lunga più sterile l’anno 1590, e quindi avvenne che in questo secondo anno si soffrì, non però con molto danno, la penuria del pane, ma nel 1591 fu così grande la fame, che fu la rovina del regno, come si dirà (1159).
      Erasene andato questo vicerè a Messina per affari interessanti della corona, e anche per assistere alle feste, che vi si erano preparate per il ritrovamento de’ corpi de’ santi [254] Placido, Eutichio, e Vittorino dell’ordine Benedittino l’anno 1588, in occasione che si cavavano le fondamenta del nuovo altare maggiore, che dovea ergersi nella chiesa di S. Giovanni dell’ordine de’ cavalieri Gerosolimitani. Il pontefice Sisto V, previo il dovuto esame, avea con suo breve permesso a’ Messinesi, che quelle reliquie fossero venerate sugli altari, e che se ne celebrasse la invenzione a’ 2 di agosto.